Le stelle hanno per secoli indicato la rotta ai naviganti. Anche alla nave di Otello che approda a Cipro vittoriosa dopo che “l’orgoglio musulmano sepolto è in mar”. La volta celeste è il filo conduttore dell’allestimento che debuttò nel 2012 a La Fenice con la regia di Francesco Micheli, ripresa da Giorgia Guerra al Teatro Filarmonico di Verona come titolo inaugurale della Stagione 2017. Il tema marinaresco diventa predominante nei costumi di Silvia Aymonino, che immagina uomini ingiubbati con incerate che fanno ondeggiare nella tempesta verdiana, una flotta di velieri in miniatura, marinai e ufficiali biancovestiti intenti a divertirsi nei loro alloggi, infine un gruppo di piccoli gondolieri ad allietare la processione religiosa. Grazie all’artificio di un tulle, lo zodiaco si sovrappone ai personaggi, li ingloba e li caratterizza: la costellazione del leone corrisponde alla Repubblica veneta di Otello, una figura alata a Desdemona, mentre un’idra dai tentacoli che si insinuano ovunque identifica Jago.

Il disegno registico da subito evidenzia una duplicità di lettura. Da un lato, l’odio che motiva Jago è un morbo che proviene dall’interiorità e che l’interiorità va a infettare. Dall’altro, i movimenti degli elementi scenici (Edoardo Sanchi) in rivoluzione ciclica, identificano un potere superiore dal corso inesorabile, tenebroso come la notte: “Credo con fermo cuor … che il mal ch’io penso e che da me procede, per mio destino adempio” canta Jago. Lui è l’unico che possa mutare il corso degli astri, e le sue parole di fiele si stampano in cielo come predizioni astronomiche (luci Fabio Barettin). Il microcosmo di ciascuno si riflette nel macrocosmo che tutto racchiude, in un sottinteso gioco di specchi che il regista incornicia entro elementi simbolici.

L’ambiguità è insita nell’uomo e, a parte Desdemona dal cuore puro super omnia, la non univocità è un tema ricorrente che rende profondamente umani, perciò credibili, i personaggi di Micheli. Jago non è un cattivo tout court. Egli sa irretire, sa conquistare la fiducia delle vittime, dimostra che il male può essere attraente pur se mezzo di distruzione. Otello è un condottiero dolce e sensibile, capace di inginocchiarsi a pregare a fianco della sua sposa. Ma è solo una maschera: vera, in cartapesta a unire semiotica e venezianità, che cade quando egli dimentica ogni altro sentimento che non sia la gelosia accecante. Un tarlo monocorde insinuato da esseri striscianti che avviluppano il Moro e gli impediscono il libero raziocinio. Il finale indulge alla ricerca della scena a effetto. Il fantasma della povera Desdemona, fresca di strangolamento, appare alle spalle dell’amato e ne guida i gesti suicidi. Donna angelicata, svolge la funzione di elevare lo spirito. Dal regista assimilata alla concezione femminile della poetica stilnovista, Desdemona è un messaggero celeste, un mezzo di intermediazione tra l’amore terreno e quello ultraterreno. La morte di Otello giunge quindi, per Micheli, come atto purificatorio e di redenzione, che permette ai due di avviarsi, mano nella mano, verso un’eternità libera dal male.

Attenta ai segni della partitura verdiana, era la bacchetta di Antonino Fogliani. Un fortissimo d’esordio che ha fatto balzare il pubblico sulle poltrone, ha dato il via al gioco dinamico e coloristico   andato intelligentemente a intersecare gli intenti registici. Una direzione incisiva, capace di declamata potenza come di momenti lirici di grande suggestione emotiva. Kristian Benedikt si è mosso, più nel canto che sulla scena, alla ricerca delle sottigliezze caratteriali di Otello, distaccandosi dalla consuetudine vocale alla quale il ruolo ha abituato. Gli acuti erano limpidi e ben proiettati, e la tenuta di fiato sfoggiata fino al termine, benché la prestazione nel suo complesso non sia risultata lineare e abbia evidenziato piccoli nei. Monica Zanettin dopo un primo atto opaco ha tirato fuori smalto e carattere, e raggiunto vette sublimi di sensibilità interpretativa nell’Ave Maria, toccante per il candore, non ingenuo ma consapevole, con il quale Desdemona affronta il proprio destino. Elegante e omogenea la linea stilistica di Jago, Vladimir Stoyanov, baritono dalla voce chiara, senza sbavature, dalla tecnica padroneggiata agevolmente e dal bel fraseggio servito a tratteggiare una malvagità accattivante e di sconcertante naturalezza. Di razza, l’Emilia di Alessia Nadin e il Cassio di Mert Süngü. Ad affiancarli, Francesco Pittari, Roderigo; Romano Dal Zovo, Lodovico; Nicolò Ceriani, Montano; Giovanni Bellavia, Araldo. Superati gli iniziali scogli di coesione con la buca, il Coro preparato da Vito Lombardi ha fornito una prova lodevole, assestata sui consueti standard qualitativi. Puntale ed espressivo il Coro di voci bianche A.Li.Ve guidato da Paolo Facincani.

Recensione Maria Luisa Abate

Visto al Teatro Filarmonico di Verona l’8 febbraio 2018
Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona.